Viviamo il tempo delle tre guerre.
La prima la conosciamo molto bene perché è l’esatto tipo di clima in cui si sviluppò la prima guerra mondiale nel secolo scorso.
E’ la a guerra imperialista: imperi che intendono misurarsi e battersi per la conquista di una egemonia o per rallentare il proprio declino o per ridefinire sfere d’influenza.
Questa guerra si è già manifestata e viene già combattuta e comporta anche, ma non solo, la ridefinizione di confini e terre conquistate.
La novità consiste nel dover convincere masse riottose, inflaccidite da decenni di pace, a rimettersi l’elmetto per massacrarsi l’un l’altro, convertendosi all’idea della essenziale inevitabilità della guerra.
E a questo scopo si prodigano in tanti utilizzando tutti i mezzi di persuasione di cui dispongono, arruolando alla causa tutti gli intellettuali, o pseudo tali, che si rendano disponibili a divulgare il verbo.
La seconda è una guerra a cui siamo purtroppo abituati: la guerra per le risorse.
L’unica differenza rispetto al più recente passato è il tipo di risorse, ma anche l’aver abbandonato qualsiasi ipocrita reticenza e pietosa giustificazione per camuffare queste guerre in scontri tra il bene e il male.
In epoca di dominio quasi incontrastato dell’impero d’Occidente, dopo la caduta dei blocchi, queste guerre necessitavano di una giustificazione ideologica e morale: abbattere un dittatore malvagio che deteneva fantomatiche armi di distruzione di massa, sconfiggere il germe del terrorismo, ristabilire l’ordine mondiale e la legalità internazionale.
Ora di queste menzogne non c’è n’è più bisogno.
La trasparente sincerità con la quale si dichiara di aver bisogno di prendersi quei determinati minerali in quel tal paese e di volerseli prendere con le buone o con le cattive è un esempio piuttosto convincente del nuovo clima: nessuna pietosa bugia, niente retorica legalitaria, vige la legge del più forte e amen.
La terza guerra è inedita ed è appena scoppiata, ma non ne cogliamo ancora tutti i contorni: potremmo definirla una guerra civile all’interno del capitalismo.
Cinquant’anni fa è iniziata una ennesima ristrutturazione del capitalismo mondiale, con la globalizzazione, processo che subì una fulminea accelerazione dopo la caduta del blocco sovietico. Ora si assiste a una guerra civile, col tentativo della potenza egemone ma in affanno di rideclinare un capitalismo nazionalistico, protettivo, reinstaurando limiti e barriere. Globalisti e neoprotettivisti si fronteggiano, per il momento la guerra è combattuta a colpi di dazi e ritorsioni, restrizioni alle esportazioni e importazioni. Ma passare dalla guerra delle dogane a quella dei missili è un attimo, nel momento in cui qualcuno vedesse minacciata la propria sopravvivenza.
A noi che non contiamo nulla non è restata che l’arma della parola.
Personalmente, cerco di comportarmi come un socialista di inizio novecento: opponendo il rifiuto ad ogni guerra imperialista e predatoria mentre dalla riva del fiume assisto alla nuova guerra civile capitalistica. Ma rispetto a quei socialisti di inizio secolo io, esattamente come voi, non dispongo più del conforto di quell’ideale rosso che poteva accendere entusiasmo, far presupporre masse pronte a insorgere, e far pensare che vi fosse luce in fondo al tunnel.
Anzi: i disastri di questi tecnocrati liberaldemocratici convertiti al bellicismo probabilmente faranno la fortuna della reazione, degli insorgenti partiti neofascisti e neonazisti.
Resta però un fatto: un’ampia maggioranza del popolo europeo non vuole la guerra e non vuole il riarmo. Che queste maggioranze non abbiano praticamente voce in un continente che si definisce democratico è la contraddizione su cui bisogna impegnarsi.